Ieri ho visitato lo splendido giardino di Yu. Ho pensato di riproporre alcune riflessioni sull’essenza del giardino cinese, corredandole con le foto dello Yuyuan.
Nel giardino cinese ogni ambiente è dato da una sapiente composizione di elementi naturali, disposti e armonizzati in modo tale da farli quasi apparire spontaneamente concresciuti e scoperti casualmente dallo sguardo. Scrive Maggie Keswick nel suo saggio The Chinese garden: «Benché vi sia un ordine complicato che può infine essere percepito, i cinesi non hanno creato i loro giardini perché fossero concettualizzati dall’alto, da un elicottero cerebrale, come hanno fatto francesi e italiani. Il giardino cinese andava percepito come una sequenza lineare, “il rotolo dipinto in cui entrare con la fantasia”, che appare infinita». Il paesaggio dipinto e quello distillato nella sua quintessenza in un giardino offrono solo a chi li percorre un’illimitata serie di scorci, mutevoli in tono e atmosfera di stagione in stagione, cangianti nei loro chiaroscuri secondo le diverse fasi del giorno, sinuosi e imprevedibili, quasi generati dalla forza stessa della natura, di complessità stupefacente ma mai geometrici e razionalmente decifrabili come labirinti. Essi sono inoltre organizzati in modo tale che chi li attraversa, giunto al termine del proprio viaggio, non sappia tracciarne mentalmente la mappa ma sia costretto a ritornarvi ancora e ancora per lasciarsi sorprendere dai mutamenti impercettibili di un organismo vivo.
Le rocce onnipresenti nei giardini cinesi, stimate per l’opera di erosione che gli agenti naturali hanno operato sulla loro superficie e simili nella forma a concrezioni di nubi e addensarsi di soffi, sono rimandi simbolici al Dao che plasma le cose. Una delle tre caratteristiche della pietra perfetta è quella di essere tou (透), cioè porosa e attraversabile in un volo immaginario che ne percorra le caverne segrete, l’intrico organico e vivente che espira nebbie e vapori e custodisce le sorgenti dell’immortalità.
i muri sono spesso dipinti con i colori spenti e non vistosi della natura nella sua essenza: il bruno dei rami secchi, il verde dei muschi, il grigio della roccia nuda. La luce vibra soffusa e inappariscente sulle pareti come sugli specchi d’acqua torbidi e fitti d’alghe che punteggiano il giardino, ed è proprio la sua opacità discreta a suggerire l’impressione di un ambiente che si estende oltre i propri angusti confini materiali. La dualità interno-esterno è sdrammatizzata da aperture, spesso rotonde, forma simbolica del cielo, che come i tori giapponesi costituiscono delle cornici non-cornici, direzionano lo sguardo e il cammino verso spazi che non sono stati pensati prospetticamente in vista di questa sezionatura. La cornice non li racchiude ma li intensifica nella loro qualità atmosferica di luoghi, condensazioni dell’universo proprio grazie alle trasformazioni innumerevoli che il tempo, la carezza mutevole della luce, il tono irripetibile di ogni stagione opera su di loro.
Percepire il mormorio di mondi in formazione dentro una semplice pennellata, vedere nella piccola roccia la secolare metamorfosi del suo farsi montagna, cogliere ogni elemento naturale non solo per come si presenta ma nell’imminenza del suo sorgere e declinare nel trasmutarsi delle stagioni, nell’albero il minuto seme da cui è germogliato e la foresta a cui esso darà nascita, richiede un lento apprendistato del cuore che è lo scopo ultimo del giardino cinese.
Bellissimo, grazie Gabriella sia per quello che scrivi che per le foto