
Ho qui accanto a me tre libri, tutti narrano storie di donne che, per sfuggire al grigiore e all’oppressione di un mondo costruito da uomini, decidono di farsi piante. Letteralmente: radicarsi, lasciare che il proprio corpo germogli, disseminarsi ovunque. In La foresta trabocca di Ayase Maru (add editore, 2023), Rui, la moglie di uno scrittore che proprio narrando di lei, della sua ingenua disponibilità al piacere e del suo illetterato candore, ha raggiunto la fama letteraria, ingerisce una ciotola di semi e si copre di germogli. Il marito la pianta nella terra e la trascura, ma lei cresce e verdeggia, divora la libreria dove il marito l’ha iniziata alla lettura, quindi tracima da una finestra ricongiungendosi al boschetto vicino, finché i suoi polloni oscuri e fertili invadono l’intero quartiere. La vena narrativa del marito si estingue, quasi avesse ereditato lui quel blocco della parola e del pensiero, che alla giovane moglie fin dall’infanzia era stato imposto dalla cultura giapponese, perché spegnesse nella vita domestica le sue ambizioni, scavasse dentro di sé il silenzio, come una stanza vuota che amplifica l’eco dei discorsi maschili. Solo un’altra donna, la giovane editor dei romanzi del marito, anch’ella protesa ad attendere la voce del genio letterario, e a porsi al suo servizio, penetra nella foresta rigogliosa e possente, è turbata dalla sua forza selvaggia, intravede la moglie Rui che ora la inabita come una ninfa o un’amadriade. Scopre il labirinto minerale che la donna sta costruendo in sé, e lo rivela al marito. Con la voce forte e determinata che non sapeva di possedere, consegna allo scrittore ormai sterile il comando di entrare nella selva sterminata. Qui lo scrittore si smarrisce, trova dei gradini di pietra, acconsente a scendere, senza sapere che dovrà sprofondare nel passato suo e della moglie, ascoltare per la prima volta il suo desiderio di donna, che non è muto godimento erotico, ma insurrezione, rabbia, metamorfosi, tempesta, volontà di essere protagonista di quei libri vergati da uomini, che le suggerivano libertà e avventure da cui era esclusa. Vuole vivere in pienezza la condizione umana, a patto che lui trovi il coraggio di germinare nel corpo e farsi foresta vivente, diversa ma abbracciata a quella della moglie.
Il tema della donna che rinasce in forma vegetale è stato già esplorato, con preziosa rarità, da altre opere. La più vicina culturalmente è il racconto della sudcoreana Han Kang, “Il frutto della mia donna” (nella piccola raccolta Convalescenza, pubblicata da Adelphi nel 2019). Anche qui una giovane donna, che ha lasciato alle proprie spalle il villaggio natale e il destino sordo e grigio della madre, per smarrirsi un una metropoli tentacolare che le ha rubato ogni linfa, ritrova in forma di pianta l’impeto della sua infanzia tradita: “Mamma, continuo a fare lo stesso sogno. Sogno di diventare alta come un pioppo. Sfondo il soffitto della veranda e anche quello del piano di sopra, del quindicesimo piano, del sedicesimo, crescendo a vista d’occhio e trapassando il cemento armato finché non supero il tetto in cima a tutto. Fiori simili a larve bianche scoppiano dalle mie estremità più alte. La mia trachea, così tesa che sembra scoppiare, assorbe acqua limpida; il mio petto svetta fino in cielo e mi sforzo di protendere ogni ramo” (pp.81-82). È il marito a narrare con meraviglia la sua prodigiosa alchimia. La pianta nella terra, la annaffia di acqua e di sole, sa ritrarsi di fronte all’inspiegabile miracolo, e gustare infine i frutti dolceamari che i rami gli tendono, come un invito a partecipare all’essenza ritrovata della vita.
In Donne senza uomini di Sharnush Parsipur (AIEP editore, trad. da Anna Vanzan,1989) troviamo un’altra donna, complice prima e poi ripudiata dalla patriarcale società iraniana. Mahdokht si pianta infine nella terra ghiacciata, un’altra donna ribelle, Farrokhlaqa, l’accoglie nel suo giardino, con l’aiuto di un misterioso giardiniere, che sembra uscito dalla poesia mistica sufi persiana. Mahdokht cresce, verdeggia, e infine affronta il dolore dello spaccarsi della corteccia, per potersi propagare come seme nella vastità libera dell’universo: “In una metamorfosi eterna le particelle di Mahdokht si disgiunsero l’una dall’altra. Faceva male, come se stesse partorendo. […]. Mahdokht si stava aprendo come il pulviscolo d’acqua. Infine, tutto fu compiuto. L’albero si trasformò in semi, una montagna di semi. S’alzò il vento, un vento forte che sparpagliò per aria i semi dell’albero Mahdokht. Mahdokht viaggiò insieme all’acqua, nell’acqua… Divenne ospite del mondo, andò in tutto il mondo.” (pp.112-113).
Tre donne che, obbedendo all’alchimia del proprio corpo femminile, sfuggono a un destino opprimente, ramificandosi e verdeggiando. Ma mentre negli ultimi due casi sembrano sprofondare nel silenzio arcano e incontenibile della vita vegetale, nel libro di Ayase Maru si presagisce l’aurora di un nuovo mondo in cui uomini e donne riconoscono mutuamente la propria comune natura umana. La protagonista Rui non si inabissa nella muta potenza materna del preumano, ma riesce a toccare il tormento della figura maschile, oltre il pudore e la rabbia, e a trascinarla con sé nel fulgore della propria rinascita.