La notte in cui nacque la scrittura….

Un’anteprima del mio nuovo post sul blog letterario http://www.hounlibroitesta.it

bluscrittura

La notte in cui nacque la scrittura, raccontano i classici cinesi, dalle nubi cadde una pioggia di miglio e i demoni piansero nelle tenebre. La chiave della fecondità inesauribile, e l’antidoto contro ogni demone che sussurra nel buio dell’anima: questo è il dono di libertà che le parole facevano agli uomini. Ma chi ha inventato la scrittura cinese? Durante il regno del mitico imperatore Giallo, si dice che un ministro di nome Cang Jie, osservando le impronte degli animali abbia compreso che tutte le cose hanno una struttura interiore, una linea che le percorre come la colonna vertebrale percorre e dà movimento al corpo o come la linea melodica attraversa una composizione musicale. Guardando il cielo, seguì col dito le volute erratiche delle nubi, unì tra loro le stelle distanti e colse le forme delle costellazioni. Posando lo sguardo a terra vide la filigrana sulle ali degli insetti, le fenditure delle cortecce,  i profili delle montagne, che più tardi i pittori avrebbero chiamato “vene di drago”. Prese un pennello e riprodusse le arterie pulsanti di vita che si ramificavano in ogni dove. Non inventò la scrittura, la scoprì come si scopre una gemma rara. I testi antichi usano un verbo che significa “far sorgere”. La scrittura era già in ogni cosa, e non era dominio esclusivo dell’umano, bastava lasciarla emergere nell’occhio che la contemplava, farla fluire nelle dita che tracciavano i primi segni. Singolarmente, anche i sumeri attribuivano l’origine della scrittura all’imitazione delle impronte degli uccelli. E in effetti, a cosa assomiglia la scrittura cuneiforme se non a un capriccioso arabesco di impronte lasciate da ibis sulla sabbia un istante prima di prendere il volo?

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Imparare il cinese: parole-scrigno e parole-giardini segreti

Ho cominciato, con mia grande gioia, una collaborazione con uno dei più importanti blog letterari italiani, http://www.hounlibrointesta.it . La mia rubrica si intitola “Leggere in Cina”, e questa è la mia presentazione:

“Nessuno specchio riflette il volto di una persona la cui anima è in Cina”, scriveva Anna Kavan. Ma forse la scrittura può farlo. Dalla mia stanza a Shanghai voglio provare a raccontare, attraverso i libri e le parole, tutto ciò che riguarda la Cina. E restituire la meraviglia e lo straniamento dell’abitare sul crinale tra due mondi e linguaggi.

Ogni mese pubblicherò qui un’anteprima del mio post. Oggi si comincia con un post sull’avventura di imparare a leggere il cinese e…tornare analfabeti!

 

Quando nel 1955 Jorge Luis Borges viene nominato direttore della Biblioteca Nacional di Buenos Aires ha realizzato il sogno di una vita intera. Ma questa meta raggiunta non è l’uscita da un labirinto che si dipana sotto i suoi piedi, ma l’ingresso in un altro labirinto aggrovigliato come un enigma e fatto solo di vicoli ciechi. Perché ora che è il custode di una città di novecentomila libri i suoi occhi, oscurati da una malattia progressiva, non possono più leggere. Con impareggiabile ironia, nella Poesia dei doni Borges esalta con stupore la maestria di Dio che gli ha donato insieme tutti i libri del mondo e la cecità:

Enciclopedie, atlanti, l’Oriente e l’Occidente, secoli, dinastie, simboli, cosmi e cosmogonie offrono i muri, ma inutilmente. Lento nella mia ombra, la penombra vuota esploro con il bastone indeciso, io, che mi raffiguravo il Paradiso sotto la forma di una biblioteca.

Agli antipodi di Buenos Aires c’è forse un altro luogo dove un lettore può sperimentare questo intreccio di meraviglia, nostalgia di paradisi perduti e rassegnazione. Nel centro di Pechino, a est della Città Proibita, Wangfujing Dajie è una fitta, caotica e sfavillante successione di vetrine. Il turista finisce fatalmente per tornarci in continuazione attratto da un baricentro invisibile, forse solo la rassicurante visione di così tanti volti di occidentali impegnati nell’ordinario, sempre identico, rituale degli acquisti. A dissipare questa simmetria illusoria, a un lato della via svettano i nove piani della libreria Xinhua, una delle più grandi della Cina. Una libreria-astronave che vi accoglie nella sua plancia lucente, inquietata dal dinamismo perpetuo delle grandi e affollatissime scale mobili che collegano i piani con il loro moto di marea. È su una di queste scale mobili che sei anni fa ho capito che la Cina era il mio destino. Ho guardato dall’alto la distesa sterminata di scaffali tanto fitti di volumi da lasciare presagire che nessuna domanda umana vi era stata negletta, nessuna risposta intentata. Eppure da piano a piano, come il cieco Borges vagavo in un’oscura selva di segni indecifrabili, chiavi a cui non avevo accesso, volumi muti e refrattari come pareti. E lì mi si è palesato l’ingegno beffardo di quel dio che ci ha donato insieme tutti i libri del mondo e il caos di Babele. Ho ricordato Il dolce sgomento borgesiano di regredire alla nebbia della nascita, osservando i segni e le linee della mano cancellarsi lentamente. Anche per me, attraversando lo specchio e viaggiando all’altra estremità del mondo, il tempo si era invertito: ero tornata analfabeta.

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