Ossia: puoi davvero permetterti di sognare?
“Qui, dove si infrangono le onde del nostro mare
Si ergerà una donna potente con la torcia in mano,
la cui fiamma è un fulmine imprigionato, e avrà come
nome Madre degli Esuli.
Il faro nella sua mano darà il benvenuto al mondo, i suoi occhi miti scruteranno quel mare che giace fra due città.
Antiche terre, – ella dirà con labbra mute
– a voi la gran pompa! A me date
i vostri stanchi, i vostri poveri,
le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi,
i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste,
e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.”
Questa poesia di Emma Lazarus campeggia sul piedistallo della Statua della Libertà di New York. Non so se il cugino di mia madre la conoscesse quando decise di lasciarsi alle spalle l’Italia per sempre, dopo che nelle ristrettezze del dopoguerra i suoi genitori avevano speso tutti i propri beni per l’affitto di un campo, e una grandinata aveva distrutto l’intero raccolto. I suoi fratelli partirono per New York e lui invero si imbarcò per il Canada, dove arrivò “scosso dalle tempeste”, derubato dei suoi pochi soldi da un compagno di viaggio, e senza conoscere una sola parola di inglese. Lavorò per molti anni come taglialegna nelle foreste canadesi, cercando di imparare la lingua dai suoi compagni di lavoro, poi trovò una nuova occupazione a Vancouver, e con questi soldi la sera si pagava lezioni di inglese e seguiva la scuola serale. Si diplomò da privatista e grazie a una borsa di studio la sua esistenza ebbe finalmente la svolta desiderata: si laureò brillantemente in ingegneria e passò il resto della sua vita professionale come direttore di una centrale nucleare vicino a Toronto. Ecco, il sogno americano (esteso al Canada) era esattamente questo. Il perseguimento della felicità, l’esaltazione della determinazione individuale, il riscatto finale. Il sogno americano apparteneva a chiunque lo volesse, per povero che fosse, e cominciare a sognarlo era spesso l’inizio di un atto di supremo coraggio e di faticosissima ascesa. Quel sogno è morto. Non c’è più spazio, in nessun luogo, neppure nell’America di Trump, per “i poveri, le masse infreddolite che vogliono respirare libere, i rifiuti miserabili delle spiagge affollate”.
Eppure ogni giorno, camminando per Shanghai, sono circondata da manifesti che esaltano il Zhongguo meng 中国梦, il Sogno Cinese, che è un po’ la parola d’ordine della presidenza di Xi Jinping. A ogni angolo si invita la cittadinanza a comportarsi in un certo modo per realizzare il sogno cinese, i grandi manifesti pubblicitari cavalcano l’onda e invitano all’acquisto di beni o proprietà immobiliari per avere una vita all’altezza del sogno cinese. Per me straniera, emigrata in condizioni incomparabilmente migliori di quelle di mio cugino, cosa significa questo sogno dal quale dipendono le opportunità di studio che mi sono state offerte e che ha dato una svolta radicale alla mia esistenza? Innanzitutto, il sogno cinese è un sogno dell’era della globalizzazione. Non sono milioni di persone che sognano il riscatto della propria vita altrove, ma è un sogno che la Cina fa su se stessa e per se stessa. E non è solo la Cina, anche l’America di Trump e molti stati europei stanno cominciando a produrre questi sogni a sfera di vetro. Puoi tentare di parteciparvi, è chiaro, ma l’accento è tutto sull’utilità che puoi apportare a quel sogno, non sulla tua ricerca di felicità. Nel 21° secolo devi essere qualificato e referenziato per poterti permettere di sognare. Hai un curriculum da sognatore?
Nei due decenni scorsi, molti occidentali sono entrati in Cina con il visto turistico attratti dal grande balzo economico cinese. Sono rimasti in Cina, come clandestini. Non hanno visto né identità sociale, continuano a muoversi negli interstizi della società cinese, spesso viaggiando e mantenendosi con lezioni di inglese e lavori in nero. La Cina non era allora nelle condizioni di vigilare, e non l’ha fatto, accogliendo queste persone che contribuivano comunque al fervore economico. Ora la politica del governo è di tolleranza zero verso quella che i cinesi hanno imparato dai film americani a chiamare “white trash”, spazzatura bianca. Ci sono controlli a sorpresa dei passaporti, talvolta raid specie durante i rave party amati dai giovani occidentali. Ti vengono comminati migliaia di euro di multa, e sei reimbarcato il giorno stesso per la tua nazione di origine. Ma ci sono soprattutto le nuove rigide barriere all’ingresso. Devi partire dal tuo paese con un contratto di lavoro già firmato, e i visti per lavoro sono graduati secondo i “crediti” che puoi vantare. Di questo sistema cinese dei “crediti” scriverò ancora, perché probabilmente entrerà anche nel nostro futuro.
Ci sono visti di lavoro A, B e C. Un visto A è una dichiarazione di benvenuto, avrai vantaggi di vario tipo e ti sarà facilmente rinnovato. Con un visto C dovrai sottoporti al farraginoso sistema burocratico cinese, e conquistarti ogni rinnovo. Da cosa dipende la graduatoria? Strettamente parlando, dall’utilità che puoi apportare al sogno cinese, un visto A è probabilmente il frutto di una “cattura di cervelli” da altre nazioni dove i cervelli fuggono. Alla base di tutto c’è un complesso punteggio matematico che riguarda tre aree: 1) Il titolo di studio massimo conseguito (e qui il dottorato di ricerca, considerato carta straccia dai datori di lavoro italiani, rivela la sua utilità). 2) Il tuo valore professionale: in che settore andrai a lavorare? (ci sono settori definiti come più strategici di altri), a quanto ammonterà il tuo stipendio?. 3) La tua conoscenza del cinese, certificato dai sei livelli dell’esame HSK, Il Toefl cinese. Titoli di studio conseguiti in Cina aumentano il punteggio. La somma totale dei punti stabilirà il timbro sul tuo visto e deciderà se sei un immigrato A, B o C.
Prepariamoci al fatto che i nuovi sogni dell’era della globalizzazione assomiglieranno sempre meno alla Statua della Libertà e sempre più a uno spazio cintato da un muro, con un funzionario dotato di moduli e calcolatrice a ogni ingresso. Recentemente Macron ha rivolto un appello agli studiosi e scienziati americani, a rischio di perdere il finanziamento dei propri studi per le politiche di Trump, a trasferirsi in Francia. Non risultano finora appelli di benvenuto per i “rifiuti miserabili delle spiagge affollate”. Gli USA a loro volta hanno una quota ristretta di visti per profughi siriani e le loro famiglie, purché dottorandi o già dotati di PhD. Ora che il sogno americano è morto, è ora di porci una domanda alla Black Mirror: siamo sufficientemente referenziati per sognare?