BAMBINI NEL VORTICE DEL TEMPO

Space Invaders di Nona Fernández è un libro sulla memoria dei bambini, quando questa memoria è forclusa, cioè irrecuperabile, schiacciata dall’indicibile di una dittatura. I protagonisti sono stati bambini e compagni di classe durante la dittatura di Pinochet. La dittatura è questo buco nero che resta invisibile, perché attrae a sé e divora quella luce che è condizione atmosferica di ogni esperienza del mondo. È un evento dalla densità infinita di silenzio e di orrore, ma l’autrice non racconta la storia, non ne rende testimonianza, ci mostra solo l’effetto di sfondamento che esso ha prodotto nel tessuto della mente, e al tempo stesso l’attrazione che esso esercita, facendo orbitare irrevocabilmente le memorie dei bambini intorno a sé. Memorie che sono state frantumate nel momento stesso della loro formazione, e sono destinate a restare così, schegge, relitti, che non possono ricomporsi perché mai sono stati integri, solo ripetere come satelliti di una stella disgregata, la loro obbediente rotazione intorno al buco nero.

Il buco nero prende una forma, un nome, quello della bambina Estrella Gonzalez, figlia di un pezzo grosso del regime. Il tempo di iniziare la scuola, rispondere all’appello – e tutti i bambini qui si chiamano solo per cognome, come fossero in ogni istante convocati e messi in fila da una voce imperiosa – e Gonzalez sparisce, trascinata in giro per il mondo dalle vicissitudini del padre, dal tradimento e dall’omertà dei suoi sodali, come si intuisce. Lei gioisce di questa giostra luminosa che le appare il mondo, scrive ingenuamente lettere entusiaste all’amica, lettere che a un certo punto sono troncate dalla censura imposta dagli adulti. Riappare fugacemente in un articolo di giornale conservato negli archivi della scuola, e il suo nome finalmente viene detto, anzi urlato dal marito geloso, anch’egli tenente dei famigerati Carabineros di Pinochet, prima del femminicidio. Oltre le cesure della storia, si prolunga l’odio, la paranoia, la disponibilità di armi mortali, ma tutto ciò non può essere detto, ed Estrella non può prendere carne e sostanza neppure nella morte, “si disarticola in luci colorate” come i marziani del videogioco che dà il titolo al libro. Nel videogioco la morte è costantemente ripetuta e mai definitiva, è possibile giocarsi nuove esistenze, ma non vincere una volta per tutte e andare oltre. Soprattutto, neanche col sacrificio di una vita, il suo esplodere e sparire in un fuoco effimero di pixel, si può battere il punteggio che le generazioni precedenti, i fratelli innominabili morti da eroi in battaglia, avevano raggiunto.

La memoria dell’infanzia è come un sogno che ci narriamo e ci rinarriamo. Tutti i ricordi della nostra vita sono ricostruiti in una continua affabulazione, in cui il senso raggiunto proietta all’indietro la sua luce, e il passato è la stoffa cangiante di cui siamo fatti. I ricordi dell’infanzia sono particolari, perché la loro consistenza è più aerea e cedevole. Sono nubi dalle mille forme, che precedono il gioco dell’immaginazione. Ma per questi bambini il sogno è solo la materialità soffocante dei materassi e delle lenzuola che indicano come proprie dimore. Risucchiati dal sonno come da un vortice di sabbia senza fine, cercano con fatica di ricostruire ciò che è stato. Gonzalez, la sparita, l’assente, la mai veramente morta, è colei che come una spoletta guizza dall’uno all’altro, visitandoli nei sogni come volesse intessere e riparare la tela lacerata della memoria. A qualcuno appare come voce, ad altri parla in forma di lettere, con verbosità e impertinenza di bambina, a Zuñiga, il destinatario di un’infatuazione segreta, appare nel suo corpo nudo impregnato di acqua marina, lo rassicura sulla sua vittoria, chiede perdono per la propria innocenza. Le sue fattezze mutano, il nome è incerto, l’età sembra oscillare, come se ognuno faticosamente cercasse di trattenere una sfaccettatura del suo essere. Ma questi pezzi non si incastrano mai, non corrispondono, sono solo barbagli di luce radente che sezionano la memoria. Come nel gioco segreto che essi stessi avevano inventato, i bambini eterni si cercano nel buio, si pizzicano, si accarezzano, si abbracciano e poi si perdono in una risata cristallina. Ma quando gli adulti riaccendono la luce, si sono già ricomposti nell’ordine rituale e implacabile dei corpi imposto dalla disciplina. I riti della propaganda, l’inno nazionale, la bandiera, le file ordinate, ciascuno con la mano sulla spalla del compagno di fronte, l’igiene delle uniformi, l’esattezza ritmica dei bottoni infilati nelle asole, questo è l’unico passato che torna, ossessivo e sempre uguale, man mano che i decenni passano. È lo spettro di un’infanzia indicibile, di una verità che non poteva mai essere interrogata, a turbare l’ininterrotto dormiveglia di questi sopravvissuti. Trattenuti in un’infanzia che non può essere mai trascesa, perché il passato non è mai trascorso. I bordi delle cose sono inafferrabili perché scheggiati e taglienti, e dall’eterno ritorno del trauma, dalla sua giostra feroce, ormai nessuno può scendere. Non saranno mai adulti, ma solo sonnambuli tormentati dai flash, e ogni breve risveglio è solo la dolorosa coscienza che il tempo è trascorso a scatti, senza di loro. Possono invecchiare, non possono crescere.

Ne Il fiore rosso e il bastone, Herta Müller rievoca in modo sorprendentemente simile l’infanzia rubata degli scolari nella Romania di Ceaușescu. Lo stesso buco nero li trascina e li disfa, la cesura e lo strappo, l’eterno ritorno della vergogna ingiustificabile per ciò che non si è compreso. Il tempo, scrive Müller, “non va errando cronologicamente attraverso la memoria, ma si espande nelle tante sfaccettature del ricordo. S’incontrano sempre nuovi particolari, s’accoppiano in modo nuovo, e a ogni accoppiamento assumono un aspetto diverso. La testa è il luogo di saccheggio della dimensione più bassa delle cose.” Solo gli oggetti restano, ti assediano, ti abbagliano, come le file di alieni verdi riavviano continuamente il gioco che non puoi vincere. L’oggetto infestante che perseguita i sogni dei bambini di Nona Fernandez sono le mani artificiali del padre di Gonzales, che è stato amputato, forse, durante una battaglia, come dice la verità ufficiale. Mani di legno, di argento, armate di artigli e pallottole, che brulicano come insetti nella mente, invadono le loro case dalle troppe porte chiuse. La vita passa nel sussulto dei falsi risvegli, nell’improvviso affollarsi delle sparizioni, delle bare e dei fiori. La vita di una generazione fatta della verde fosforescenza degli schermi, di un’invasione aliena che non ha fine (ma chi è l’alieno, chi è l’altro da uccidere qui?), dell’attesa di una chiamata che li convoca ancora e ancora, i corpi troppo cresciuti per le strette uniformi. La chiamata di Gonzalez che da qualche luogo ignoto oltre la vita dovrebbe infine rivelare il vero, ricondurli alla realtà dietro gli spettri ingannevoli dell’ideologia, ma che ogni notte li lascerà così, imperdonati e imperdonabili, bambini eterni nel vortice del tempo.

Nona Fernández

Space Invaders

Edicola Ediciones, Ortona 2015

ISTRUZIONI PER LEGGERE L’ULTIMO ROMANZO DI TIFFANY MCDANIEL, “L’ECLISSE DI LAKEN COTTLE”

Li possiedi tutti, allineati su un alto scaffale, i libri di Tiffany. Bolle di vetro che contengono mondi in miniatura. Ogni tanto ne afferri una (attenta, è fragile!) e la rigiri tra le dita. Guardi dentro e vedi Breathed, Ohio, e i monti Appalachi. Fattorie e campi di pannocchie, e Main Lane arsa dal sole che si incunea tra le case, le autofficine e il diner. E cuce insieme le vite di quelle anime minute che camminano o si sporgono dalle finestre per salutarsi, deridersi, benedirsi. Oppure accucciate nella soffitta guardano da un buco nella parete un segreto che doveva essere taciuto. Ci sono nugoli di libellule dalle ali di pizzo, mele rosse intagliate, bambine che si fanno donne sotto la lama, padri che affabulano perché non sanno addomesticare il mondo. Da qualche parte, oltre i campi e le montagne, c’è la spiaggia del tempo, con i suoi barattoli incagliati, pieni di nomi e destini.

Rigiri le sfere di vetro, per un istante osservi un ragazzino che corre e poi precipita dalla scala infinita di Dio, un fulgore bianco ti distrae, accosti le orecchie per ascoltare i segreti preziosi di sorelle davanti a un intruglio di neve e di latte. C’è chi cammina sulla strada con il gelato domenicale, chi si arrampica sulle recinzioni, chi si impiastriccia il volto e i vestiti di ribes, mirtilli e more, ragazzini che tentano l’amore e nuotano per l’ultima volta nella cisterna, e una minaccia impalpabile che sfolgora qua e là, nel verde silenzio dei monti, e non la puoi afferrare. Scrutando nelle sfere dal punto di vista di Dio, fai girare i paesaggi e i destini come caleidoscopi. Le riponi in fila (attenta, lo sai che sono fragili!), spolveri lo scaffale, prepari il posto vuoto. Apri il pacchetto e con stupore estrai la nuova bolla. È diversa dalle altre. Una caligine buia sembra schiumare contro le pareti di cristallo. La scuoti un poco e qualcosa intravvedi, una giostra da carillon, forse, che gira senza musica nel fluido oscuro. La passi da una mano all’altra e ti sfugge dalle dita. Cade sul pavimento e va in frantumi (te l’avevo detto che sono fragili!). Il sole entra in una nuvola ed è penombra e silenzio. Guardi con sconcerto il disastro minuto ai tuoi piedi, qualcosa rotola via nella fenditura tra le piastrelle. Una pesca, forse, o un rubino d’orologio? E quelle teste di cavallo intagliate nel legno, che ti osservano con occhi febbrili? Tutti quei minuscoli detriti, erano forse una fattoria o una torre? E l’uomo addormentato sulla spiaggia con pantaloni color cachi, riuscirai a ricomporre il suo mondo, prima che si svegli? Raccogli tutto con la scopa, i frammenti sbattono l’uno contro l’alto con un tintinnio di campanellini d’argento. Hai rotto anche una vetrata, credi, perché tutte queste schegge colorate? Sarà un’impresa, ora, girare il tempo all’indietro sugli orologi a pendoli e riparare l’apocalisse. Rovesci tutto sul tavolo, sparpagli i pezzi, con una pinzetta e nastro adesivo cerchi di ricombinare il tutto. Questo corno stava forse sulla fronte di un cane? E perché questa esuberanza di code e di bussole? È un fischietto o una macchina da scrivere, quella cosa che scintilla? E queste maschere con gli occhi disegnati e le lingue biforcute, vanno attaccate sulle teste dalle orbite vuote?

Freneticamente, tenti mondi ipotetici, erigi cattedrali di oggetti senza senso. Come un demiurgo costruisci lacerti di mondo, sei folgorata da combinazioni inattese, distruggi tutto e ricominci trascinata da una curiosità febbrile. La sera scende, sei una sagoma di ombra ormai. C’è come una nebbia dentro e fuori di te, marosi di oblio. Non riesci a ricordare più nulla, conti i pezzi, componi e scomponi. Questo camioncino con frutti e felci rosse sulla fiancata, dove doveva andare? E questo sole di cartapesta dalla cui bocca dorata sgorgano girasoli? I piccoli pezzi sembrano sciogliersi e mutare sotto i tuoi polpastrelli, un drago ti morde il dito e sguscia via. Guardi la goccia di sangue, confusa, c’è uno scalpitare di zoccoli, come cavallini di sabbia che precipitano in una clessidra. Cominci a dubitare di poter riparare il danno. D’altronde te l’aveva detto quella mezza cherokee dell’Ohio con le labbra di ciliegia (ma di chi sono questi ricordi ora? Crescono dappertutto come folti capelli). Ti aveva avvertito che quando un’anima va in frantumi non la si può più riparare (se ne intendeva di coltelli e di lame). E poi c’è questo battito ronzante, come un metronomo che segna il ritmo sbagliato, e ti dà l’emicrania. Ti alzi, ti affacci alla finestra. Non è nulla, solo una mosca che continua a sbattere cocciutamente la testa contro la volta del cielo (come se oltre il limite del sogno potesse esserci qualcosa). Respiri, ti sciogli i capelli, scruti con apprensione quella crepa che attraversa il cielo. Speri che il nastro adesivo con cui l’hai richiusa tenga, ora che sul mondo sta scendendo il buio.