Frequentavo il primo anno di filosofia a Milano. Il lunedì mattina non avevo lezione, così potevo arrivare comodamente con il treno delle 10, che attraversava pigramente nebbie e pianure con i suoi vagoni semivuoti. Quel giorno a Treviglio, l’ultima fermata prima della Stazione Centrale, salì un viaggiatore, non avrei saputo dire se cinese o giapponese: all’epoca li confondevo, come avviene alla maggior parte delle persone. Forse l’avevo fissato un minuto di troppo, perché lui si sentì in dovere di presentarsi. Era un tipo affabile, con una stretta di mano vigorosa. Mi raccontò che veniva da una cittadina vicino a Shanghai, si era trasferito a Milano da dieci anni, aveva aperto una palestra di arti marziali. Mi disse che organizzava anche corsi di autodifesa per donne. Voleva darmi una dimostrazione, così cercò di insegnarmi come divincolare, con una semplice rotazione, i polsi da due mani che li stringono. Provai e riprovai, ma fu subito evidente che la mia fatale mancanza di coordinazione, oltre ad avermi impedito di prendere la patente di guida, mi avrebbe anche reso la vittima ideale di legioni di ignoti assalitori. Lui assunse un’espressione da saggio taoista e mi spiegò che chiunque poteva apprendere quelle tecniche, sarebbero serviti solo tempo e pazienza, e intanto guardava fuori dal finestrino come se stesse contemplando le distese ininterrotte dei secoli. Per risollevarmi dall’imbarazzo, spiegai che io studiavo filosofia e me ne pentii subito, pensando che qualcuno avrebbe potuto leggere una facile allusione al legame, che il mio istruttore di guida non mancava mai di sottolineare, tra la mia materia di studio e la mia inettitudine fisica. Invece il mio passeggero ne fu affascinato. “In Cina moltissime persone sono attratte dalla filosofia occidentale, ma purtroppo mancano insegnanti. Perché dopo la laurea non ti trasferisci in Cina a insegnare filosofia? Non avresti nessuna difficoltà a trovare un posto di docente. Potresti cominciare tenendo lezioni in inglese, la lingua cinese piano piano la imparerai!”
Ecco, ci sono istanti, abbastanza numerosi, in cui la mia vita sembra impercettibilmente inclinarsi e scivolare giù oltre il bordo della realtà. Dovete sapere che all’epoca non solo io non nutrivo il minimo interesse per la Cina, ma l’economia cinese non aveva ancora imposto al mondo intero il ritmo possente della sua crescita. Era un paese di cui non si parlava mai e che suscitava l’attenzione solo degli economisti più accorti e preveggenti. Io perciò sgranai gli occhi, cercai di immaginarmi la Cina – immensa, povera, indecifrabile, in sequenze di fotogrammi virati al seppia – e me in Cina (sperduta dove?) a insegnare la Scienza della Logica di Hegel a studenti attoniti in una delle lingue più inaccessibili partorite dalla Torre di Babele. Mi era venuto in mente quel libro perché sul muro di una casa prospiciente l’ingresso dell’Università un anonimo writer aveva scritto a grandi lettere «Chi ha letto la Logica di Hegel non può impazzire», koan misterioso su cui avremmo meditato senza capirne il senso fino al giorno della laurea. Mi aggrappai a quello, perché a me sembrava invece che quel colloquio in treno avesse preso una piega grottesca e surreale. Intendiamoci, non è che una laurea in filosofia mi dischiudesse davanti praterie sterminate di possibilità professionali, ma insegnare filosofia occidentale in Cina! Era la proposta più bizzarra e pazzesca che mi fosse mai stata fatta. Stavamo entrando in stazione, il meccanismo del freno aveva già cominciato a far cigolare le ruote. Non volevo sembrare scortese, così annuii e gli dissi che sì, certo, ci avrei pensato, ma lui era entusiasta della propria idea, e mi accompagnò fino all’ingresso della metropolitana per raccomandarmi di fare domanda e subito dopo la laurea, di andarci subito, in Cina, dove un miliardo e passa di persone erano assetate di conoscenza. Quella sera risi con gli amici di quell’incontro bizzarro. Poi il tempo passò, lessi la Logica di Hegel, non impazzii. E un giorno, per puro caso comprai una traduzione del Tao Te Ching. E un anno dopo pensai che volevo occuparmi di filosofia cinese e avrei dovuto guadagnare un po’ di soldi e andare a Venezia a studiare la lingua. E un po’ dopo ancora andai due settimane a visitare Pechino e sulla collina del Palazzo d’Estate mi fu tutto chiaro. E oggi, che manca una settimana alla mia partenza per Shanghai, ripenso a quell’incontro, in uno scompartimento delle Ferrovia dello Stato, con il passeggero cinese e la sua folle idea, e mi rendo conto che ci sono eventi della nostra vita che sono nodi scorsoi. Per anni interi stai lì a osservare la loro struttura intricata e poi, un giorno, semplicemente tiri i due capi del filo. Il nodo si scioglie e tu resti lì, con in mano un filo che, ad averlo saputo, aveva sempre puntato diritto, fin dall’inizio, verso la giusta direzione.