Un filosofo tra i grattacieli

In Cina, in questi ultimi decenni, ora che l’egemonia del marxismo-leninismo si è allentata, c’è una grande corsa a riscoprire filosofi del passato. I giovani sono schiacciati tra i valori tradizionali del clan familiare e il modello di vita occidentale, scintillante, inquieto, perturbante. Milioni di persone sono spinte dalla pubblicità a trasformarsi in consumatori (va ampliato il mercato interno), e questo sposta i confini antichi, narrati dalla letteratura e dall’Opera di Pechino, tra l’urgenza del desiderio e la celebrata virtù del sacrificio e della rinuncia. Nelle sterminate periferie-termitaio di Beijing, Shanghai e Shenzhen ci si scopre improvvisamente soli, privi del controllo e dell’ordine che il vincolo comunitario offriva, e l’individuo anarchico, confuso, conformista, lotta con tutte le sue contraddizioni per uscire dall’anonimato come i Prigioni di Michelangelo dalla pietra informe. Il marxismo sembra non avere più risposte per chi comincia a pensare che l’universo graviti intorno al proprio cuore e al proprio destino. E allora nelle librerie gli spazi dedicati ai classici del comunismo si riducono per lasciare spazio ai libri di auto-motivazione (da “Brodo caldo per l’anima” a “The secret”) e agli scaffali dedicati alla spiritualità, vera babele di religioni e arcane saggezze. Il lettore inquieto vuole parole che traccino cartografie dell’anima in cui ritrovarsi, e la filosofia cinese, specialmente quella guardata un tempo con sospetto perché accusata di “idealismo”, si rivela uno scrigno inesauribile. Risposte antiche si intrecciano a domande nuove e inedite in un caos creativo simile a quello di una nuova stella che nasce. Uno dei filosofi più amati e riscoperti è Wang Yangming, maestro neoconfuciano vissuto tra il 1472 e il 1529. Fondendo in modo originale la tradizione confuciana con la nuova attenzione alla mente-cuore (in cinese è un’unica parola, xin 心) portata dal Buddhismo e dal Daoismo, Wang è l’interprete perfetto di questo momento storico, in cui le convinzioni tradizionali sono messe in discussione e l’elemento perturbatore venuto dall’esterno non è più il buddhismo indiano ma i sogni d’autoaffermazione e le mutevoli angosce di un individuo che ormai non è più “occidentale”, ma globale. «Tra cielo e terra non vi è null’altro che chiara intelligenza. Solo per le loro forme fisiche e i loro corpi gli uomini sono separati. La mia chiara intelligenza è il signore del cielo, della terra e degli esseri spirituali. Se il cielo è privato della mia chiara intelligenza, chi ammirerà la sua altezza? Se la terra è privata della mia chiara intelligenza, chi scruterà la sua profondità?» La nave del tempo fluttua su un mare in tempesta, ci ammonisce Wang, e allora dobbiamo saldamente afferrare il timone, la mente-cuore che è «cielo e abisso». Al tempo stesso però non dobbiamo abbandonarci a misticismi illusori o tentare di fuggire dal mondo. Qui e solo qui è il nostro cammino, e il miglioramento confuciano di sé è il nuovo compito che attende chi ha rinunciato a rivoluzionare la storia: «Se uno esercita uno sforzo serio e concreto, scoprirà che la Via è infinita. Tanto più uno la raggiunge, tanto più essa si fa profonda. Nel perseguire la Via, bisogna essere meticolosi come nello sbramare il riso finché esso non è raffinato e bianco, senza trascurare la più piccola parte. La Via è ovunque, e così il compito che devi realizzare». Dalle remote profondità della storia, Wang parla ai cinesi d’oggi, traduce in modo nuovo l’impegno nel mondo e la ricerca di successo, e rimanda al cuore come criterio ultimo. Forse non è lontano il momento in cui anche gli occidentali, non meno stupefatti di loro di fronte ai grattacieli che salgono a sfidare il cielo, e a un tempo che muta in modo convulso e indecifrabile, si metteranno in ascolto di queste voci lontane, per capire non più “ciò che è specificamente cinese”, ma una crisi e una potenzialità che è solo nudamente umana.

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