Doll Syndrome (2014): l’inferno dello sguardo

Doll Syndrome di Domiziano Cristopharo rappresenta l’inferno nella trilogia in cui Red Krokodil (vedi recensione precedente) era il purgatorio. Gli squarci allucinatori in cui il protagonista di Red Krokodil trovava, immergendosi nella natura, una vana e temporanea aspirazione alla salvezza, o il ricordo di un paradiso d’infanzia perduto, qui sono totalmente assenti. Non c’è via di fuga dalla realtà, non c’è via di fuga, letteralmente, dallo sguardo fisso, onnipresente, perturbante del protagonista. L’inferno qui è un inferno dello sguardo e dell’essere guardati senza possibilità di sottrazione. La famosa frase di Sartre che il film incarna, “L’inferno sono gli altri”, è fondata sull’analisi dello sguardo d’altri ne “L’essere e il nulla”, un pezzo, potremmo dire, di puro horror filosofico in cui l’esperienza quotidiana dell’essere guardati o scoperti da altri si rivela “un’emorragia interna del mondo, il suo deflusso verso altri”, in cui io perdo il mio status di soggetto e mi scopro, nell’esperienza della vergogna, come oggetto nel progetto indecifrabile dell’altro.

Il protagonista nel film tiene gli occhi perennemente sbarrati, sono occhi senza battito di palpebre, immobili e ossessivi. Strettamente parlando, non sono “occhi”, una parte del corpo d’altri che mi può trasmettere la sua emozione vissuta e che io posso cercare di interpretare, ma sono un puro “sguardo” disincarnato che non lascia riparo, come quello di Dio che incorniciato da un triangolo, incombe dall’alto, da un fuori assoluto, sui personaggi di un dipinto. Anche il protagonista sembra privo di un corpo, anche se paradossalmente non c’è altro nella sua vita che non la ripetizione di azioni che coinvolgono la corporeità, i suoi bisogni elementari, i suoi orifizi. La fenomenologia distingue due modi di darsi della corporeità: uno è il corpo vissuto (Leib), quello che noi siamo nel nostro agire quotidiano, attraversato dai nostri desideri e dai nostri scopi, mentre orienta tutto il mondo intorno a sé come fonte di dinamismo e di vita; l’altro è il corpo anatomico (Körper), il corpo-oggetto di cui ci parlano gli atlanti di medicina, il corpo morto delle dissezioni autoptiche, il corpo in cui noi siamo confinati in momenti estremi della vita, per esempio quando una malattia spezza e ostacola il nostro slancio vitale e ci inabissiamo nel dolore o nelle esigenze di una carne che ci oggettifica, ci strappa fuori dal nostro progetto esistenziale.

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L’elemento perturbante del film è che il protagonista sembra privo di un corpo vivente-vissuto, ma soggiace completamente alle necessità del copro anatomico. Il protagonista non sembra avere alcuno scopo nella vita oltre a spostare nello spazio il suo sguardo ed essergli un inerte supporto. L’estrema ripetitività delle sue azioni, in cui ironicamente è riuscito pure a trasformare in un rituale l’assunzione delle medicine, prescrittegli, probabilmente per curare il suo disturbo ossessivo-compulsivo, segue le meccaniche del corpo anatomico. Il corpo vissuto è la condizione per l’esistenza del tempo e della storia, perché permea la realtà di un significato e di un colore emozionale, la orienta verso un graduale raggiungimento dei propri scopi. Il corpo anatomico è senza tempo, è abitato solo da un ciclo ritmico di tensione e rilascio, ingoiare ed espellere, dentro e fuori, che risucchia tutta la vita del protagonista. Il carattere claustrofobico di questa ripetizione è dato proprio dall’onnipresenza di uno spazio (la casa, il percorso routinario verso il parco, la lavanderia) che non ha un tempo, non può trascendersi, fare cenno verso qualcosa oltre che gli dia un senso, ma solo ritornare angosciosamente senza fine, come il ciclo di lavaggio della lavatrice che tanto sembra affascinare il protagonista e offrirgli uno specchio in cui riconoscersi. Questo corpo deprivato di un’anima, e che rende impossibile empatizzare con l’attore come invece era ancora possibile con il tossicodipendente di Red Krokodil, non suscita interesse o compassione, ma respinge lo spettatore come un oggetto refrattario ed enigmatico.

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Lo sguardo che porta in giro è inquietante proprio perché per lo spettatore è un buco nero, un centro d’attrazione che curva il mondo e lo inghiotte senza restituire nulla: “Qui la fuga è senza termine, si perde nell’esteriorità, il mondo fluisce fuori dal mondo e io fluisco fuori da me: lo sguardo altrui mi fa essere al di là del mio essere in questo mondo.” Quello sguardo vuoto e smisuratamente aperto mi mette a disagio non solo perché mi espropria del mondo, del mio diritto di dare alle cose l’ordine e il significato che scaturisce dalla mia libertà, ma anche perché mi rende oggetto, cosa tra le cose. Nel film questa alienazione è enfatizzata dalla circostanza, realisticamente improbabile, che il protagonista guarda indisturbato, senza che nessuno si renda conto di essere guardato. Lui è lì sulla panchina, a pochi passi dalla coppia di fidanzati, perfettamente dentro il loro campo visivo, eppure nessuno si volta per restituirgli lo sguardo. Scrive ancora Sartre: “L’altro è prima di tutto l’essere verso il quale io non volgo la mia attenzione. È quello che mi guarda e che io non guardo ancora, quello che mi dà a me stesso come non-rivelato, ma senza rivelarsi lui stesso, quello che mi è presente in quanto mi osserva e non in quanto è osservato, è il polo concreto e fuori portata della mia fuga ,del deflusso del mondo verso un altro mondo che è il medesimo e pur tuttavia incomunicabile con questo, […] e che non è mai così presente, così urgente come quando non vi faccio attenzione”.

Questo effetto, che il film riproduce con l’ostentata e surreale indifferenza della coppia, perennemente immersa in un interminabile discorso a due che taglia fuori il mondo, o della donna sola, catturata dalle righe di un libro, ha tuttavia un risvolto problematico. Il sentimento di paura, di minaccia incombente, di vergogna che è la manifestazione dello scoprirsi guardato è evidente allo spettatore, che attende l’istante in cui la forza di implosione disgregatrice di quegli occhi senza palpebre risucchierà il mondo circostante, ma non scalfisce né turba in alcun modo la banale quotidianità della coppia. Per portare a compimento la meccanica di quello sguardo allora, è necessario un atto di violenza estrema e indecifrabile che strappi le vittime dal mondo consueto, in cui sono liberi e sovrani, e le trascini in un luogo altro, dove sono stranieri a se stessi, privati della padronanza sul loro destino, trasformati in oggetti. L’oggetto, l’utensile, è ciò che la libertà trascende in vista di uno scopo, ma qui la libertà del protagonista è quella arbitraria di un soggetto assoluto, totalmente indecifrabile nelle sue ragioni e nei suoi fini. L’uomo che viene trascinato nella lavanderia (vale la pena notare che il mondo degli altri è aperto e comune, fatto di parchi e di strade, il mondo del protagonista, dalle stanze dell’appartamento alla lavanderia, è richiuso su se stesso, claustrofobico, uno spazio che si comprime senza respiro) è letteralmente trascinato fuori da se stesso, dall’intimità di sé con sé, denudato e trasformato in un utensile che ignora il proprio scopo ultimo.

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E qui avviene la svolta, in cui il protagonista, intenzionalmente o no, dona qualcosa all’altro, come una superficie riflettente permette alla vittima di specchiarsi e ritrovare se stessa nella propria carnalità, di scoprire nel suo essere oggetto per altri la dimensione del proprio piacere e del proprio desiderio. Paradossalmente ora il mondo quotidiano è il luogo dell’alienazione da sé, della distrazione, della chiacchiera e della pantomima, e il mondo recluso dell’altro è quello che attraverso la prossimità insuperabile del dolore permette alla vittima di lasciar cadere la propria maschera e di toccare il cuore nudo e autentico della vita. Anche il protagonista aveva cercato di accedervi attraverso atti di autolesionismo. Fare che il proprio sangue sgorghi dalle ferite è una sorta di reality check, di conferma della propria realtà per una persona che spossessata del proprio vissuto vive in un costante stato di derealizzazione e spersonalizzazione. Ma anche quando riesce attraverso una lama di rasoio ad aprirsi delle labbra nel ventre, quella labbra non articolano parole, non esplodono in un urlo, non testimoniano di profondità nascoste e significati sotto la superficie della pelle, ma riproducono il ghigno del protagonista, riconfermando una condizione esistenziale fatta di ripetizioni, duplicati e loop senza uscita.

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Il problema (e l’essenza dell’inferno) è che non puoi dare te a te stesso, ma devi passare necessariamente per la mediazione dell’altro. È il paradosso del masochismo, per cui l’essere oggettificato e fatto strumento ti affranca e ti libera, restituendoti alla vertiginosa autenticità della carne innervata di pulsioni e desideri. E finalmente adesso le due vittime rese consapevoli di sé dalla discesa all’inferno guardano il protagonista negli occhi, ne fanno lo strumento per arrivare a se stessi: “La vergogna è il sentimento di essere un oggetto, di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che io abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. […] La reazione alla vergogna consisterà quindi nel cogliere come oggetto colui che ha sorpreso la mia oggettità. E con ciò, io mi riconquisto: perché non posso essere oggetto per un oggetto.”

Qui, infine, il protagonista è sotto scacco e senza possibilità di redenzione. A differenza della donna che può togliersi la maschera del volto per rivelare l’oggetto-bambola, non ha nessuna possibilità di usare lo sguardo altrui per tornare a se stesso, prigioniero com’è del suo corpo anatomico, del suo corpo-cadavere fatto di pulsioni da scaricare, ma privo della possibilità di trascendersi nel piacere e nel desiderio. L’inferno si riconferma privo di vie d’uscita. Non è il dolore qui il vero inferno, ma l’eterno ritorno e la trappola mortale dell’indifferenza.

(Tutte le citazioni nel testo sono tratte da: Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore 2014)

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